Una riflessione sull’abitare.
Il 30 marzo scorso si è tenuta una serata organizzata dall’area della salute mentale di Nuova idea sul tema della casa e dell’abitare.
Prima di inoltrarci brevemente nei contenuti trattati dai relatori, è forse utile fermarci insieme sulla scelta delle tematiche proposte.
Il tema dell’abitare (in) una casa, uno spazio fisico per ciascuno di noi significativo, è una dimensione cruciale del nostro lavoro riabilitativo. Per noi operatori è un ambito in cui si accolgono le persone, si articolano i progetti, si programmano obiettivi che prevedono l’esercizio e l’apprendimento di abilità di tipo pratico, interpersonale, di modulazione della propria individualità per poter stare con gli altri in una casa e per poter abitare successivamente altri luoghi di vita. Rappresenta inoltre uno spazio in cui le persone stanno in relazione con gli operatori, e gli operatori tra loro stessi.
Abbiamo desiderato raggiungere la cittadinanza con una riflessione su questo tema a partire da alcune prospettive. Una prima, che ci riguarda tutti, apre a ad una riflessione individuale sui diversi modi in cui ciascuno abita la propria casa vivendo i suoi spazi interni, per interrogarci sul modo in cui noi li attraversiamo nel corso del tempo e nelle diverse fasi della vita per comprendere che cosa raccontano di noi. Un’altra prospettiva, che ci permette di uscire dall’esperienza individuale, ci fa entrare in quegli spazi abitativi vissuti nelle situazioni di fragilità, in cui ci si confronta con la densità simbolica e la pregnanza di significato diverse dai vissuti delle nostre normalità e consuetudini.
L’intervento serale della professoressa Caprioglio si potrebbe riassumere in questo pensiero che lei ha condiviso con i partecipanti: Abitare è abitarsi, è abitare le proprie emozioni. A partire dalla casa dovremmo capire se abitiamo veramente i nostri bisogni.
La casa è la metafora del nostro vivere interiore, è forse il luogo più intimo che abbiamo, e stabilisce un legame profondo con noi stessi e con le persone che la abitano insieme a noi. Accoglie quei cambiamenti che ci trasformano: la nascita di un figlio, la perdita di un nostro caro, un matrimonio…
La casa rappresenta parti simboliche del nostro corpo: l’oralità è la cucina, questa dimensione primaria che tutti noi abbiamo ampiamente visto e sperimentano nelle fasi di confinamento dovuto alla pandemia covid19; la cura di sé è il bagno, questo “rifugio acquatico” che ci permette di riconciliarci con noi stessi e far scorrere insieme all’acqua la nostra stanchezza. La sessualità è la nostra camera da letto, ordinata o disordinata, in cui possiamo vivere la dimensione dell’amore nella sua interezza. I corridoi, questi spazi sui quali si affacciano le stanze di una casa, che conducono ad altre stanze, simboleggiano l’allontanamento dalla figura materna. Qualche volta, da bambini, possiamo avere sperimentato la paura di percorrere questi spazi, perché poco illuminati o perché eravamo da soli a farlo.
Le mura di tutte le case sono mura sensibili, che, metaforicamente, ci ascoltano e ci guardano. Nelle situazioni di fragilità la sensibilità diventa un elemento emergente: una nuova casa da abitare può essere accogliente o far sentire la solitudine, può guarirci oppure farci rimanere in una condizione di sofferenza. Questa parte nominata dalla professoressa Caprioglio entra prepotentemente nella riflessione di noi operatori sul nostro lavoro riabilitativo. La cura che noi operatori mettiamo nell’accoglienza e nella predisposizione dello spazio definito per accogliere un nuovo abitante della casa, che sia appartamento protetto, autonomo, che sia comunità è sempre stata presente. Ma è una modalità di lavoro che non può essere data una volta per tutte, e che, soprattutto, deve essere oggetto di riflessione e valutazione: è sufficiente? E’ adeguata ed adatta? Questa serata ha permesso a noi operatori di sostare su alcune riflessioni che hanno a che fare sulle modalità con cui abitiamo i nostri spazi personali e quelli lavorativi.
Alcune suggestive sollecitazioni emerse nel corso della serata, ci faranno andare con maggiore profondità al modo in cui gli ospiti vivono gli spazi che mettiamo loro a disposizione, dopo aver concluso un trasloco che andrà a definire una nuova identità. Alcune parole pronunciate quella serata ci faranno ritornare “alle relazioni che curano” che instauriamo con le persone, e pensare se hanno o meno bisogno di essere tenute in uno spazio abitativo nuovo o diverso. Quando una relazione è accoglienza dell’altro, non può fare a meno di mura accoglienti.
L’intervento di Riccardo, che ruota intorno al fulcro dell’intimità di una casa a partire dalle proprie esperienze di vita, ha offerto una sorta di filo conduttore agli interventi che si sono succeduti. Riccardo ha abitato ogni spazio abitativo in cui ha saputo costruire il proprio progetto riabilitativo, a partire dall’inserimento in una comunità protetta fino all’odierno appartamento autonomo.
A questo proposito il dottor Miola e la dottoressa Vigolo ci hanno aiutati a ripercorrere la storia della residenzialità nella interezza del suo percorso di esperienze vissute nell’ambito dei servizi per la Salute Mentale, con i quali Nuova Idea collabora quotidianamente costituendosi come fondamentale punto di riferimento della rete territoriale.
Molte persone hanno fatto pezzi di strada insieme: utenti, familiari, professionisti e con convinzione possiamo affermare che la storia riabilitativa non sarebbe possibile senza l’apporto di ciascuno: nostro compito è abitare con convinzione la motivazione, questa disposizione operativa che permea la nostra professione di operatori, accoglierla negli spazi, abitativi e relazionali, che dobbiamo saper individuare, costruire e rinnovare.
Ogni giorno siamo chiamati ad una sfida che sta nel coinvolgere le istituzioni e la società nella gestione sempre più condivisa di situazioni di residenzialità leggera in ottica inclusiva, dove la dimensione socio sanitaria viene via via meno, lasciando lo spazio a quella sociale.