Proponiamo una testimonianza e alcune riflessioni di una nostra socia lavoratrice in merito al valore del lavoro di cura.
La nostra cooperativa, ogni giorno, da trent’anni, si prende cura delle persone e della comunità.
Con questo contributo vorremmo aprire uno spazio per dare voce alle diverse componenti di Nuova Idea e condividere l’esperienza e i vissuti di ciascuno.
Rosa Sclippa
Nomino la cura a partire da alcune importanti sottolineature portate dal Prof. Umberto Curi nel corso del suo intervento fatto il 10 ottobre scorso al convegno organizzato dalla Cooperativa Nuova Idea: Ripartendo dalla cura. Affermava che la cura si accompagna concretamente ad alcune parole che concorrono a definirla nell’ambito della scienza medica: medicina, terapia, farmaco, chirurgia.
Ma aggiungeva anche che un altro significato costitutivo di questa parola andava cercato nella relazione con l’altro attraverso un semplice sintagma: mi prendo cura di te.
Il verbo curare si dota di per sé di un certo grado di complessità, con il doppio significato di curo e mi prendo cura. Il contrario è una persona noncurante, colei che non si dà pensiero di qualcosa che dovrebbe essere importante.
Prendersi cura dell’altro è, o dovrebbe tendere a essere, una disposizione che accompagna ogni essere umano che si pone in relazione con altri esseri umani, attribuendo loro un proprio valore intrinseco. Generalmente è un punto di inizio fatto di accoglimento, ascolto, attenzione, disponibilità, empatia. È capace di generare uno “spostamento emotivo” che ci fa comprendere l’altro e nello stesso tempo essere compresi dall’altro.
Nel nostro lavoro che si esplica nelle relazioni d’aiuto questo passaggio è importante, ma non sufficiente, in quanto si complica e si arricchisce di alcuni attraversamenti. Ci dobbiamo aggiungere quantomeno l’intenzionalità, la temporalità e la responsabilità, consapevoli di omettere in questo momento una dimensione fondamentale come l’etica.
L’intenzionalità si impara. Nel lavoro riabilitativo, prendersi cura dell’altro è un ragionare consapevole su quanto possiamo mettere in atto per il benessere della persona che abbiamo di fronte, nel rispetto della sua integrità. Professionalmente, è un dialogare di colleghi che stanno in un’equipe aperta al confronto, che orienta o determina scelte e linee di lavoro guidate dalla cura. Significa per ogni operatore avere gli strumenti per leggere i bisogni della persona, a volte espressi a volte troppo profondi per essere comunicati. Significa avere imparato un alfabeto per comunicare la cura anche in situazioni di profondo sconforto e annichilimento, quando ogni desiderio sembra cessare. La professione che riabilita è un lavoro delicato, in cui anche l’utilizzo di una parola, l’assunzione di una postura, uno sguardo sottratto possono ridefinire i confini della relazione di cura. Non esiste casualità in questo operare.
La temporalità si assume su di sé, con la consapevolezza che il tempo del prendersi cura non è sempre un tempo lineare e progressivo. Nel prenderci cura dell’altro dobbiamo prevedere un tempo in cui questa pratica trova compimento, ma ci può essere un tempo in cui la cura ci chiede di stare fermi ed in silenzio. È in questi momenti definiti dall’attesa che dobbiamo imparare a non consumare le nostre risorse, la nostra fiducia, la nostra capacità di previsione. Tutto questo appartiene al continuum del prendersi cura, che ci dice quanto non possa essere improvvisato.
La responsabilità è sostanza viva del nostro lavoro. Ci fa sentire responsabili la persona che ci consegna le proprie fragilità, diveniamo responsabili quando prendiamo coscienza del suo essere vulnerabile. È un passaggio importantissimo, perché in una relazione di cura sentirsi in questo modo depositari di responsabilità e fiducia non significa diventare operatori onnipotenti, che guidano ed indirizzano il benessere delle persone: significa saper predisporre con cura contesti esperienziali che facilitano l’assunzione di responsabilità da parte della persona nella definizione e costruzione del proprio benessere. Questo snodo è fondamentale, perché in un lavoro di cura e riabilitativo non va mai persa di vista l’autodeterminazione della persona.
La pratica dell’avere cura è articolata ed assume volti diversi, ci chiama in prima persona esponendo il nostro spazio interiore ad emozioni che vanno integrate con la parte più tecnica della nostra professione. In questo senso avere cura degli altri è avere cura anche di noi stessi, di quanto sentiamo e pensiamo.
Approfondire la cultura della cura è stata una scelta che la nostra cooperativa ha operato almeno da un paio di decenni, predisponendo da un lato piani formativi diversificati che danno struttura ad interventi riabilitativi sempre più qualificati, dall’altro offrendo degli spazi di ascolto ed elaborazione dei vissuti degli operatori stessi. Senza dimenticare ogni iniziativa che diventa testimonianza del nostro lavoro.
Come persona, come operatore, e perciò risorsa umana tra quante compongono la nostra realtà lavorativa, ho vissuto questo investimento formativo con una forte motivazione, perché ha determinato dei nuovi principi che sono entrati nella pratica del prendersi cura, alcuni dei quali ho prima ricordato, dando sostanza ad un operare cui forse, fino ad allora, faceva difetto una parte valoriale. Parallelamente, questo investimento sulle pratiche della cura ha caratterizzato un passaggio storico essenziale, che ha visto il Terzo Settore lavorare ed impegnarsi per offrire dei servizi sempre più aderenti alla centralità della cura e della persona, spesso in un’ottica anticipatrice.
È quanto ci guiderà per il futuro.